Buona Domenica cari lettori e lettrici, a partire da oggi nelle sale arriva:

L’OMAGGIO A UN GENIO CHE HA ‘TAGLIATO’ LA SUA EPOCA E LA MATERIA VIVENTE, INVENTANDO UNA BELLEZZA SENZA TEMPO

L’universo di Alexander McQueen è complesso. Ogni sua collezione è (stata) un evento, ogni sua sfilata è (stata) uno spettacolo di referenze, letterarie e cinematografiche, come il suo omaggio ad Alfred Hitchcock nel 2005 (collezione autunno-inverno “Vertigo”). Creatore fuori norma, a cominciare dal suo destino, figlio di un tassista londinese divenuto stella dell’alta moda da Givenchy e poi sovrano della propria maison, McQueen ha ridefinito la moda e i suoi codici attraverso le problematiche contemporanee. Ian Bonhôte e Peter Ettedgui ritornano sulla carriera folgorante dell’artista, dai suoi debutti alla Saint Martin’s School di Londra fino alla leggendaria sfilata Plato’s Atlantis, che riguarda addirittura la science-fiction, offrendo una griglia di lettura a un sistema di pensiero esuberante e a un’immaginazione smisurata, tanto lucida quanto opaca.

Intercalando immagini d’archivio e testimonianze del suo entourage, McQueen piomba lo spettatore nel vivo del suo soggetto, del suo lavoro e delle sue trascendenze. Stilista britannico, bad boy della moda e critico fragoroso dell’establishment, Alexander McQueen crea una bellezza selvaggia e senza concessioni.

Le sue creazioni esprimono una dicotomia permanente: genialità e malessere. La tecnica vertiginosa serve la poetica allucinata: la natura divorata e minacciata dalle nuove tecnologie, la carne in faccia alla morte o all’amore, la Storia di fronte al presente o al futuro, la nefandezza che sfida la speranza e la grazia. La bellezza che McQueen ha inventato ha tutto quello che è necessario a resistere alla prova del tempo, niente nella sua opera è démodé.

Potente e ambigua resiste anche alla morte del suo creatore, avvenuta tragicamente nel febbraio del 2010. Profondamente colpito dal suicidio di Isabella Blow, editrice britannica, migliore amica e mentore, e dalla sparizione di sua madre, Alexander McQueen si toglie la vita. A quarant’anni si congeda dal mondo l’uomo e lo stilista senza dubbio più dotato della sua generazione. Tutto era permesso da lui, non c’erano limiti, nemmeno la morte, protagonista capricciosa ed energia crudele delle sue creazioni, sbattute in faccia ai giornalisti della moda.

Il documentario ‘cuce’ un ritratto con ago e filo di parole, quelle dei familiari e quelle degli amici dell’artista, risalendo il tempo fino a scovare un ragazzotto dell’East End affascinato dal pop e la new wave. Cresciuto in una famiglia modesta, McQueen non ha mai rinnegato le sue radici, facendone addirittura un marchio di fabbrica e imponendole nelle grandi maison de couture francesi. In barba alle tradizioni très chic parigine e allo sguardo accigliato della critica specializzata, disegna collezioni e monta sfilate animato dal desiderio furioso di rivoltare o di esaltare.

McQueen fa vivere le sue creazioni, la trasgressione alle regole diventa la sua regola, l’obiettivo principale è esorcizzare i fantasmi, qualcosa che cova dentro di lui. I traumi dell’infanzia, un’infanzia abusata, alimentano le pulsioni artistiche fino all’ultimo respiro. Declinato in cinque dossier, McQueen si interroga sulla specificità del “caso McQueen”, scompone e ricompone un artista troppo estremo, troppo appassionato, consumato dal suo genio e costretto a rincorrere una pace interiore che non troverà mai. Michael Nyman accompagna con le note le immagini di archivio raccolte da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui, che chiudono sull’esposizione del Metropolitan Museum of Art di New York, consacrata ad Alexander McQueen nel 2011 e rinnovata quattro anni dopo dal Victoria and Albert Museum. Una mostra che sposta il peso sulla performance perché McQueen era decisamente portato per la teatralizzazione.

Le sue sfilate trascendevano il territorio della moda, le sue modelle avanzavano in trenta centimetri d’acqua, guardavano i loro abiti bianchi spruzzati di vernice gialla e nera da robot industriali (e made in Italy), correvano sulla passerella fino allo sfinimento. E ancora, McQueen faceva indossare un abito a una mannequin bionda senza gambe e stivaletti di legno o un tartan scozzese alludendo alla battaglia del 1745 contro gli inglesi, trasformava Kate Moss in un ologramma, cercava l’orrore nel romanzo gotico, trovava suggestioni nella storia di Jack lo squartatore, pescava i peccati nell’inferno di Dante.

Una delle sue collezioni più celebri è ispirata alle venticinque streghe di Salem impiccate nel 1692 nel Massachusetts, da cui l’artista diceva di discendere in linea diretta. L’esposizione, come il documentario, confonde lo statuto di oggetto, tra abito e opera, e si interroga sulla ‘portabilità’ delle creazioni di McQueen. Se Pierre Bergé, compagno di Yves Saint Laurent e fondatore della celebre maison, sosteneva che lo scopo della moda è quello di vestire le donne, Alexander McQueen sulla questione apriva grandi orizzonti, disegnando un soprabito ispirato alla rugiada del mattino. Si indossa? Impossibile giudicare, nessuna competenza per giudicare. Ci limiteremo a decifrare quel torrente di sensazioni che vince lo spettatore davanti alle sue creazioni, confezionate con materiale incongruente che volge in scultura. Perché Alexander McQueen ha ‘tagliato’ la sua epoca e la materia vivente, ha concepito un abito a partire da una vongola, una piuma, una ciocca di capelli, cambiando le regole ma conservando la tradizione, denunciando la vanità della condizione umana e la futilità della moda. Moda che nella sua produzione coincideva sempre con l’attualità, con la Storia, col suo passato.

Trova il tuo cinema e non perderti l’occasione!